Non potevo credere che fosse successo davvero!.
Io, una fanatica della realtà ,che supera ogni fantasia!
Amleto finì in galera molto giovane, data la sua naturalissima propensione al furto con scasso (scasso era più eccitante). A prescindere dall’intervallo seccante dell’adolescenza., era un ragazzo smanioso, ricco di fantasia , di fragilità e trovava nel furto quel brivido sottile che ti tiene in vita, se non sei un vero intellettuale, di libri ovviamente!.
Amleto studiava meticolosamente come rubare senza alcun danno per lui e questo, o quasi, era tutto il suo mondo. Che fare di diverso? Nel suo orizzonte degli eventi . oltre alle ragazze, c’era solo il ruggito del furto. Quello che ti fa sentire il Leone della foresta, quello che non ti lascia mai alla gelida indifferenza di una giornata noiosa.
Una prospettiva senza ombre di dubbio che, per Amleto, si era bloccata quando era ancora un adolescente senza problemi. Allora, si era persuaso che il cantiere del suo prossimo futuro offriva un bilancio con pesantissime ripercussioni circa la sua vita e lui stava, imbambolato, nel bel mezzo come Cenerentola, come un restauro della Cappella Sistina, come una colluttazione planetaria: quindi quando sei senza un soldo in tasca e fradicio di pioggia ti chiedi se c’è una curva per un’altro pianeta.
Amleto aveva scelto che la pagliuzza nell’occhio di suo fratello era enormemente maggiore della piccola trave che era nel suo occhio! Rubare a chi? Inciampare nei ladri era il bersaglio giornaliero delle cronache! E che ladri! Tenevano in smacco la Nazione…ed erano ai domiciliari, portatori coscienti di nefandezze, coesi ai loro mandanti che nessuno, e lo sapevano tutti, avrebbero abboccato all’amo. Altrimenti il pescecane , di rigetto, avrebbe trascinato con se tutte le uova del più piccolo pesce pagliaccio…fino allo sterminio..
Appassionato di Diabolik, pianificava e promuoveva se stesso, non di luce riflessa, ma di un crescendo lunare tale da abbagliare la Luna stessa! Era più scaltro, più furbo, più intelligente di Diabolik! Le sorelle Giussani, autrici di Diabolik, avevano sbagliato soggetto, anzi, non ci avevano proprio azzeccato!
Aveva ventotto anni e la vita gli sorrideva . Rivendeva le macchine rubate al solito sfasciacarrozze che lo pagava senza batter ciglio, in quella rottamazione lucrava anche qualche benpensante intonso ed innocente come un agnellino… e tutto filava in perfetta armonia. Pieno di soldi, di voglia di vivere, di allegria , si riteneva invulnerabile quando la macchina si apriva sotto il grimaldello “on the road” ed era una conclusione giustamente gioiosa..
Tutto il freddo della vita lo inghiottì… Forse per una spiata o qualcosa andata storta . si ritrovò con tutto il freddo del mare sulla pelle a Regina Cœli .
Il bitume delle strade, la polvere odorosa di polvere, il secco umido delle notti in attesa, la miscela degli aromi quando l’obbiettivo era in campagna….si frantumarono, come sequenze cinematografiche, nella cella dove non c’era spazio per i ricordi ed ogni centimetro quadrato era fine a se stesso, anche quello del bujolo , da condividere in quattro, L’oscurità e la luce davano i ritmi a Regina Cœli e Amleto si rialzava dalla branda, a tentoni, per ricominciare il suo oscuro e terribile film daccapo. Tutto questo per otto, orribili, mesi in attesa di giudizio. La sua fortuna fu, che, nei lunghi mesi di attesa, gli fosse assegnato il ruolo di bibliotecario: ruolo non indifferente per chi, come lui, aveva salito i tre, mitici, scalini. Quelli che conducevano, e conducono diritto, diritto a Regina Cœli. Le poche ore d’aria a giocare allo schiaffo del soldato ed a tenersi lontano dai pericolosi, quelli che, se gli gira, ti lasciano in una pozza di sangue.
Amleto si domandava come fosse stato possibile un simile epilogo alla sua vita! Lì c’erano i fior fiori di assassini, compresi i ginecologi, cardinali,banchieri, ma quest’ultima categoria era la più ovvia . Si svegliava sempre prima che la luce lambisse la bocca di lupo della finestra, una luce molesta che, anche riprovandoci, non lo faceva riaddormentare. Il suo sistema nervoso aveva subito dei mutamenti e Amleto non sentiva neanche il suo cuore che urlava disperato, lo faceva tacere girellandogli intorno: si concentrava nell’ascoltare l’emigrante che aveva ucciso l’amante della moglie, o Vituccio che era stato incastrato dalla moglie. Il “ tradotto” mafioso appena arrivato con una valigetta di soldi incatenata ad una manetta sul polso sinistro che lo chiamava “ciccillo mio!”.
Rievocava, il volto dolcemente ostinato di Gloria quando voleva persuaderlo a farla finita con i furti e la sua voce squillante di ragazza scanzonata che era diventata afona,, come sfinita da una rabbia improvvisa. La stessa rabbia ardente che lo scuoteva come un fuscello, con i nervi a fior di pelle e la paura di perdere la testa in quel posto dove, apertamente, si diceva che tanti non erano sopravvissuti togliendosi la vita
Ma non voleva morire, lasciare la vita, non era verosimile anche quando la memoria lo trascinava giù. in orribili e maledetti mulinelli in cui Amleto si rivedeva bambino, in riva al mare a costruire castelli di sabbia, a ristrutturare, con le dita umide, il castello vero, L’uomo che sarebbe stato se fosse entrato dal portone principale della vita e non dalla porta di servizio dello “ scasso” che lo aveva disintegrato; adesso lo sapeva, senza scuse, celebrando la potente innocenza dell’adolescenza che, non con tutti, ha una panoramica futuristica normale, quando si stanno costruendo innocenti castelli di sabbia.
Nella cella l’aria era umida come al mare ma il mare non c’era.
L’impressione era quella di galleggiare in un fiume liscio.
Ignorava completamente su quale promontorio approdare.
Ciò che gli avevano raccontato sulle carceri, come un luogo di percezione ed espiazione dell’errore commesso, era tutto un trucco.
Montava su tutte le furie ricordando l’accusa per cui era lì.
Vivere era, ormai, una conseguenza di un animale in sopravvivenza.
Odiava quel carcere dalla cui finestra poteva vedere solo muri grigi.
Odiava la sua stupidità ora che, qualche libro, gli aveva aperto la mente.
Cercò nella saggezza, ottenuta da giorni che lasciano il segno, il senso sproporzionato che lo vedeva paragonato ad un assassino…non trovando risposte.
Piccolo uomo scassinatore, ormai soppiantato, dagli scassinatori dell’Est: scaltri , super organizzati per aprire la portiera di qualsiasi macchina: con il computer ti facevano, in cinque minuti la chiave che apriva anche le porte del paradiso. Senza scrupoli, uccidevano d’impeto e le loro barbarie così inconsuete ti rendevano chiaro che quella specie di coscienza non faceva per te, non era nel tuo programma genetico e non ci avresti, mai, e poi mai, voluto competere. Mai!
Gloria lo aveva avvisato in una delle sopraffine “ lavate di testa”: “Lascia perde Amle’! Quilli te sgamano e ce lasci le penne! Non vogliono concorrenti…’n te centra dentro sta capa tosta!”.
Gli aspetti biologici della vita umana erano condizionati dal sorgere ed il calare del sole dalla bocca di lupo con la luce inferocita di un Luglio qualsiasi, senza suggerimenti per l’amore , quell’amore fisico ormai disilluso, non c’era più il tocco dolce di una mano… come un mondo completamente svanito.
Nel quinto braccio si mescolavano le vite di carcerati, carcerieri ed ergastolani in una unica mescolanza di vita sofferta e vissuta come mai in altro posto o per qualsiasi altra ragione.
C’era un uomo, un uomo alto con un gran cappotto nero che gli sfiorava le caviglie.
Un uomo che di sabato girava nel quinto braccio, a cui nessuno faceva domande.
Apriva le falde del gran cappotto lasciando intravedere cose straordinarie che a Regina Coeli non si sarebbero neanche immaginate.
Un uomo spavaldo che, a larghi passi, sottolineava, la sua presenza, con l’affermativo rumore dei tacchi che echeggiava ritmico e cupo in tutto il quinto braccio.
Silenzioso venditore , apriva il cappotto dove si poteva intravedere, in apposite tasche, di tutto… sigarette, coca, alcool, dadi, carte da gioco, soldi falsi.
Soldi falsi. A chi potevano tornare utili dei soldi falsi in un carcere?
Questo si domandava Amleto.
Era il millenovecentosettantadue ed Amleto lo sapeva bene. Una specie di amnistia aveva allentato la morsa persino sui “tradotti”; ergastolani provenienti soprattutto dal Sud con il treno,, persone considerate di altissimo rispetto, nelle carceri.
Non gli tornavano i “soldi falsi”.
Lo seppe dopo due ore, quando Riccardo, la guardia carceraria con cui si era capito benissimo, lo aveva invitato ad uno spettacolo senza pari.
Nella cella grande del quinto braccio, quella sera, si sarebbe svolta la partita del secolo ed i soldi falsi servivano ai furbastri per ingannare gli altri giocatori.
Verso la fine della partita, quando l’alcool, bevuto in quantità industriale, avrebbe raggiunto l’effetto desiderato, l’attenzione sui rilanci sarebbe andata scomparendo ed i centoni falsi sarebbero stati rifilati insieme a quelli buoni.
Il fior fiore dei perfetti soggetti allo scopo, erano vivamente in ansia, insieme alle guardie carcerarie in quella straordinaria sera di sabato, dodici Luglio millenovecentosettantadue.
Uomini tracagnotti passavano davanti all’uomo del cappotto senza degnarlo di uno sguardo.
Uomini in completo di lino con manette d’acciaio attaccate ad un portavalori non si occupavano dell’uomo con il cappotto…le loro aspettative erano diventate ormai, molto più scrupolose; l’uomo che vendeva di tutto faceva parte di un passato talmente lontano, che la loro reazione mentale suggeriva una risatina nervosa, tutta interiore insieme all’ovvio; “Maronna quanto tempo è passato!”.
Sfilavano, senza aggregarsi, verso il quinto braccio.
Amleto li guardava insieme a Riccardo in religioso silenzio.
Impersonali ed uguali quegli uomini avevano come minimo vent’anni da scontare o una baraonda di ergastoli.
Lenti, come pugilatori in riscaldamento, si sistemarono nello stanzone nudo del quinto braccio: solo un crocefisso alla parete, un tavolo lungo e le sedie.
Ad Amleto sembrava un film, con l’orologio fermo alle otto di sera. Era felice perché l’avvocato gli aveva confermato che, il disegno di legge presentato alla Camera, prevedeva tre anni di condono per gli incensurati.
L’oro rosso del tramonto andava calando dall’alta finestra ferendo tutti con la sua stella lontana, tutti si riunirono intorno al tavolo francescano, accostando le sedie…
Il poker ebbe inizio.
Borse, borsoni, tracolle, valigie piene di soldi erano solidamente attaccate al polso dei giocatori. L’uomo con il cappotto distribuiva velocemente bottigliette di whisky e cognac che, insieme alla polvere bianca, venivano catturati, come gioielli, da mano rapaci… ormai tutti presi da un giro di valzer che li faceva ballare sulle punte, trattenendo il fiato: uomini tornati in un gioco di bimbi.
La posta saliva.
Quasi novanta milioni erano sul tavolo, senza contare quelli delle borse ai piedi dei giocatori.
“ Fermi tutti! Questa è una rapina!”. Una voce alta e sonora si dilatò per lo stanzone.
“ Chi si sente male?” chiese il pluriomicida siciliano duro d’orecchi.
“ Insomma!” gridò il sardo “ neanche in carcere si può stare tranquilli !?” Il sorriso mellifluo gli morì sulle labbra alla vista di quattro uomini armati di mitra, cappuccio nero sugli occhi, gambe larghe e pronti a tutto.
“Questo mi è proprio di conforto!”esclamò il napoletano, che di rapine a mano armata, nella fedina, ne aveva quanto un rosario!
“ Fermi!!! Le borse sul tavolo! Attenti a quello che fate! Spariamo!”.
Quel che vide Amleto, può bastare per una vita di racconti, ed in varie sfumature: infatti la raccontò anche a me, quarant’anni dopo, ed io la racconto a chi legge,
Quattro uomini incappucciati ed armati di mitra corsero verso il piano terra di Regina Celi : sulle spalle, in tre sacchi, il bottino racimolato: quasi duecento milioni di lire.
Dal quinto braccio, i depredati, insieme alle guardie carcerarie, facevano ressa per vedere la via di fuga dei “rapinatori”.
Ormai sollevati ed increduli videro che avevano imboccato la porta dell’ infermeria: non potevano aver scampo! Da lì non si poteva uscire! Che ladri stupidi! Forse era uno scherzo alla grande!
Guardie carcerarie, carcerati ed affini si precipitarono nell’infermeria e … non c’era anima viva!
Amleto mi raccontava, divertito, come fosse stato messo a soqquadro ogni centimetro quadrato dell’infermeria: letti, materassi, cuscini, tende…tutto era stato fatto a pezzettini e analizzato ma, niente di niente e l’infermeria non aveva finestre.
Oltre ai quattro uomini dove erano finiti i mitra, i passamontagna e, soprattutto, il bottino?
Un rompicapo che gridava vendetta, dal punto di vista dei rapiti.
Affascinante, dal punto di vista di Amleto.
Amleto mi tiene sospesa sul filo di una ragnatela per chiamare il secondo elefante…
“In conclusione, dove sono finiti i soldi?”
Siamo in via S. Filippo Neri ad Albano Laziale e lui nicchia…
“ Ti piacerebbe saperlo? “ mi domanda Amleto da finto-tonto.
“Dai!”
Gli ergastolani a conoscenza del cunicolo e della serata milionaria erano solo tre, come la trinità: tosti e granitici, che di progetti del genere ne sapevano fare e non avrebbero parlato neanche sotto la tortura della santa inquisizione.
Sono morti e, con loro, anche il segreto degli autori: stretti parenti o loro amici del cuore, a cui fu permesso la prima rapina a mano armata a Regina Cœli!”.
“Dopo un anno dovettero restaurare anche l’infermeria e, lavora che ti lavora , sotto l’intonaco trovarono un bel buco che portava dritto filato nei cunicoli sotterranei di Trastevere. Un ghetto ebraico fra i più antichi . A sera, in quei tempi, i bambini ebrei erano portati, per qualche ora, a prender aria fuori dai cunicoli : così a Venezia come a Varsavia…erano l’unico metodo di continuità per quel popolo, salvare i loro bambini.”